Questa storia è un misto di finzione e autobiografia, una storia che ha posto per tutti.
«A guardarmi bene intorno, vedo che non sono l’unico interessato al modo migliore per finirla. La compagna anoressica, la zia sempre sul divano, il funerale di un amico dove non capisco quello che è successo: indizi sparsi che da bambino ho iniziato a mettere insieme per capire che, nel mondo, c’è qualcuno oltre a me che non vuole starci, al mondo. Ma quelli che giocano, ridono, fanno senza fatica quello che io faccio con sforzi enormi: come fanno? Inizio a guardarli meglio, gli altri, come vivono, come muoiono. La mia morte e la loro morte non sono molto diverse. Mi interesso alla loro per pensare meno alla mia. Forse è per questo che ho deciso di fare l’infermiere. (…) Lo avete mai toccato, voi, il confine tra il vostro stare male e il dolore degli altri? Vi assicuro che, quando questo confine scompare, è ancora possibile prendersi cura di qualcuno; ma non si smette, nemmeno un istante, di sentirsi più soli e sbagliati di prima. (…) In RSA mi sono ammalato di Covid. Sono rimasto due mesi a casa in isolamento. Mi sono ammalato tra i primi, anzi, qualcuno dice che sono stato io ad averlo portato dentro: qualcuno che, guarda caso, si era ammalato un giorno prima di me. Era il marzo 2020. La mascherina non dovevi indossarla: per non esaurire la scorta, dicevano alcuni, o perché spaventava gli anziani. In due mesi sono morti circa un terzo dei pazienti – pazienti no, non lo si deve dire, non siamo in ospedale, chiamateli ospiti. Ospiti: come se fossero in casa di altri, anche se pagano. E il proprietario di questa casa chi è? Il ministro della vecchiaia? Il sindaco del paese? Circa un terzo sono morti, alcuni in ospedale, qualche operatore è finito in terapia intensiva. Ma non è servito a nulla. I numeri del personale son sempre quelli, i minuti dell’assistenza non sono aumentati, e trovali adesso, oss (operatori socio-sanitari), infermieri, dottori che scelgano di lavorare in RSA. Non è servito a nulla. Gli anziani rimangono in un dimenticatoio civile, un ripostiglio, fino a un nuovo scandalo, fino a un’altra strage. Restano le foto in primissima pagina con il sindaco in primissimo piano all’inaugurazione di un giardinetto o di una stanza colorata; oppure viene una scuola, portano disegni, cantano in coro. Altrimenti, il pannolone troppo pieno, la tv sempre accesa, l’anziano che urla troppo e che vorrebbe ma non scappa. Ogni mese va pagata la retta. La politica s’affaccia, fotografa gli angoli belli, torna per il Natale dopo, quando arriveranno i regali (un sapone, fazzoletti di carta), ma ogni giornata è un grande pacco vuoto. Non è bastato. Non è servito a nulla. Quelli che furono i primi a nascere siano i primi a morire – non portateli in ospedale, le bombole di ossigeno sono finite, nella camera ardente non c’è più posto per le bare. E pensare che tutto è iniziato a primavera.»
STEFANO SERRI (1980), infermiere, vive a Fiorano Modenese. Tra gli ultimi libri pubblicati, il saggio Idropatici. Storie di poeti e di liquori e il romanzo Adamo e Adamo. Ha curato e tradotto testi di André Gide, Jean Giraudoux, Han Ryner e altri autori. Per le Edizioni Sensibili alle foglie ha pubblicato le poesie-teatro di Manicomio lirico (2017).