Bambini in Palestina

Sensibili alle foglie ha pubblicato nel 2003 il catalogo della mostra Bambini in Palestina, che espone 119 disegni di 120 bambini palestinesi di età compresa tra i 6 e i 12 anni della scuola San Giuseppe di Betlemme, in Cisgiordania, uno dei Territori occupati da Israele, realizzati in un arco temporale compreso tra il 2001 e il 2003.

Disegni che, per le loro caratteristiche, così dissimili da quelle dei loro coetanei che vivono nelle nostre città, ci hanno indotto a cercare dati e informazioni sul contesto nel quale sono stati tracciati. Guidati dalle loro rappresentazioni, abbiamo incontrato le informazioni che accompagnano, in questo album, 40 dei 119 disegni dell’omonima mostra.

Un piccolo strumento per accostare una realtà che, per la sua collocazione geografica e storica è sovraccarica di tensioni. I disegni di questi bimbi, portandoci nel vivo di queste tensioni, riescono a comunicare in profondità la loro estrema condizione di reclusione e sofferenza. Lo sguardo di un bambino è sempre, infatti, prima di ogni altra cosa, lo sguardo di un umano che ha visto, ha sentito, ha toccato, prima della politica, prima dell’ideologia, prima di ogni appartenenza. È dunque uno sguardo capace di vedere e far vedere. Proponiamo i disegni di questi bambini quali documenti di un’esperienza umana che va guardata anche “con i loro occhi”, accogliendo l’urgenza della loro comunicazione, che è nello stesso tempo una risorsa  di sopravvivenza e una domanda di attenzione.

I disegni esposti sono stati raccolti dalle maestre e dalla direttrice della scuola San Giuseppe di Betlemme, a cui va la nostra gratitudine. Infatti, quando la nostra attenzione alle risorse degli umani che vivono condizioni estreme è stata sollecitata dagli eventi in Medio Oriente e abbiamo iniziato un percorso di avvicinamento a quella realtà, la loro disponibilità è stata per noi essenziale. L’impostazione del nostro sguardo, orientato a cogliere gli eventi “prima di”, ci aveva indotti a ritenere che i disegni dei bambini palestinesi potessero essere materiale prezioso per guardare a ciò che accade nel carcere Palestina. Lo sguardo di un bambino è sempre, infatti, prima di ogni altra cosa, lo sguardo di un umano che ha visto,
ha sentito, ha toccato, prima della politica, prima dell’ideologia, prima di ogni appartenenza. È dunque uno sguardo capace di vedere e far vedere.

I temi principali che emergono nelle rappresentazioni e che dettano l’articolazione della mostra sono terribili testamenti di un Paese logorato dal conflitto.

I disegni dei bambini di Betlemme rappresentano la loro quotidiana vita ordinaria all’inizio degli anni Duemila, vent’anni fa. Una quotidianità che mette in cielo, prima del sole o delle nuvole, elicotteri e aerei da guerra, prima della pioggia, missili e bombe che cadono sulla testa dei bambini, sulle case. Nella percezione di Jessica (p. 54), il militare che spara colpisce e fa sanguinare, prima che lei stessa, l’uovo nel nido, l’uccellino, il tronco e le foglie dell’albero, mentre le bombe cadono a grappolo. Raramente una sola, bensì tante: una catena di proiettili, bombe, missili. Che sfidano la legge della gravità per colpire, in fine, i più piccoli, gli indifesi. Per colpire i luoghi della vita ordinaria – la farmacia, il supermercato, l’albergo, l’asilo nido – o i luoghi anche simbolici, come la Muqata, il quartier generale dell’Autorità Nazionale Palestinese. Nei disegni compaiono frequentemente morti, feriti, spesso rappresentati come bambini, compaiono case lesionate e completamente distrutte, alberi tagliati. Rari i disegni simbolici, mentre su quasi tutti incombono minacciose le sagome dei carri armati, degli elicotteri, e degli F16, aerei da guerra americani in uso all’esercito israeliano. Spesso la scrittura rafforza e chiarisce l’intenzione comunicativa degli autori. Le traduzioni di queste scritture sono state fatte in modo incrociato, utilizzando più interpreti, per restituirle nel modo più fedele possibile.

Il “carcere Palestina” e il peso dell’occupazione nella vita quotidiana

Nel gennaio 1991 Israele revoca il permesso generale di uscita agli abitanti dei Territori occupati e dal marzo 1993, impone, come misura amministrativa permanente, il confinamento, che limita e a volte blocca gli spostamenti delle persone e delle merci. Da allora i palestinesi, ad esempio per recarsi al lavoro, devono avere un permesso, che può essere rilasciato o negato, dalle autorità israeliane. Nel marzo 2001 Israele costruisce 91 blocchi stradali, (consistenti in profonde trincee scavate nelle strade asfaltate, barricate di terra e cemento) sorvegliati da carri armati e mezzi corazzati, in Cisgiordania, dividendola in 64 enclave distinte, mentre la striscia di Gaza viene divisa in almeno 4 parti simili. Sono inoltre chiusi, a Gaza, lo spazio aereo (dove l’aeroporto è stato distrutto) e le acque costiere. Il confinamento si irrigidisce per i lavoratori e gli studenti e viene esteso anche ai funzionari dell’Autorità palestinese. Lo stesso presidente Arafat è prigioniero a Ramallah, nella Muqata, il quartier generale dell’Autorità Nazionale Palestinese. A metà febbraio 2003, circa tre milioni di palestinesi, uomini, donne, bambini, anziani, sono “sigillati” nei Territori occupati, che risultano trasformati in un grande carcere a cielo aperto. Un carcere dove l’acqua è controllata alla fonte, razionata, e condotta ai villaggi attraverso una rete aperta, e dunque inquinata (l’80% delle risorse idriche è dirottato in Israele e negli insediamenti) e l’erogazione di elettricità è frequentemente interrotta per periodi prolungati. Un carcere nel quale ai malati, e al personale sanitario è impedito l’accesso agli ospedali; dove le vaccinazioni ai bambini e le forniture di farmaci sono sospese.

La chiusura delle frontiere, i check-points, il coprifuoco sono misure che incidono sulle attività scolastiche, comunitarie, lavorative, che risultano paralizzate, e sull’approvvigionamento dei beni di prima necessità, che viene reso così difficoltoso da portare i bambini a soffrire vere e proprie carenze alimentari, quando non la fame. (fonti: Organizzazione mondiale della Sanità; AA.VV., La nuova intifada, Marco Tropea editore; Sara Roy, “Postscript”, in: The Gaza strip: the political economy of de-development, II ed. 2001, Washington, DC)

Gli edifici distrutti

Nel corso del 2001 i bombardamenti attuati sulle città dei Territori hanno lesionato la maggior parte delle
case residenziali dei civili palestinesi; di queste, ne sono state distrutte oltre 5575 parzialmente e almeno 457 completamente. Le case dei palestinesi demolite in via amministrativa da Israele, dal 1987 al dicembre 2002, sono almeno 2450, in Cisgiordania e Gerusalemme Est, mentre centinaia sono le altre strutture non abitative demolite. Dal settembre 2000 al dicembre 2003, nella striscia di Gaza, 655 case sono state demolite e 70 parzialmente demolite. Le case demolite con l’esplicita intenzione di punire i palestinesi che le abitano, dall’ottobre 2001 al febbraio 2003 sono almeno 141, in quanto abitazioni di familiari di attentatori suicidi o di palestinesi “sospetti”. Dal 1987 al 1997, Israele ne aveva demolito, a scopo punitivo, 449, parzialmente demolito 62, completamente sigillato 296 e parzialmente sigillato 118. Le case dei palestinesi demolite complessivamente dal 1967 sono oltre 8000 nei soli territori occupati e le cifre dei profughi ne indicano la misura. Sono infatti ad oggi, circa 1.200.000 i profughi dentro i Territori occupati, mentre altri due milioni circa (alcuni dei quali dal 1948) sono distribuiti nei campi profughi di Siria, Giordania e Libano. (fonti: B’tselem; Unrwa, Al Mezan)

Le esecuzioni extragiudiziali

Il 27 agosto 2001 l’esercito israeliano uccide Ali Mustafà, capo del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (Fplp), colpito con un missile tirato da un elicottero, mentre era seduto alla scrivania del suo ufficio a Ramallah. In risposta a questo omicidio politico, tre mesi dopo, un comando del Fplp uccide un membro del governo israeliano, Benny Zeevi, ministro del Turismo e leader di un piccolo partito ultranazionalista. Tra novembre 2000 e dicembre 2002, sono 85 i rappresentanti di diverse formazioni politiche palestinesi uccisi da Israele in attuazione della pratica di esecuzioni extragiudiziali. Nel corso di queste esecuzioni, spesso praticate con il lancio di missili e l’uso di armi devastanti, sono rimasti uccisi altri 42 civili palestinesi. Tra questi ultimi Ashraf Abdel-Mun’em Khalil Abu Khader di 8 anni e Bilal Abd al-Mun’em Khalil Abu Khader di 10 anni nel distretto di Jenin, il 31/07/2001; Burhan al-Himuni, di 3 anni, e Shadi Ahmad Arafe, di 13 anni, a Hebron, il 10/12/2001; Madhat abd al-Wahab al-Jurani, di 17 anni a Rafah, il 24/06/2002; Iman Salah Shhada, di 14 anni, Dina Raed Matar, neonata di 6 mesi, Ayam Raed Matar, di 2 anni, Diana Raed Matar, di 5 anni, Muhammad Raed Matar, di 4 anni, Ala Muhammad Matar, di 11 anni, Ahmad Muhammad a-Shawa, di 3 anni, Subhi Mahmoud, di 5 anni, a Gaza, il 22/07/2002; Bahira Daraghmeh, di 12 anni, Osama Daraghmeh, di 12 anni, Sari Subeh, di 16 anni, Yazid Daraghmeh, di 17 anni, nel distretto di Jenin, il 31/08/2002. (fonte: B’tselem, centro di informazione israeliano)

I palestinesi feriti e uccisi

I palestinesi feriti tra il 1987 e il 1997 sono circa 70.000, la metà dei quali invalidati permanentemente. I palestinesi feriti dal settembre 2000 al febbraio 2003 nei territori occupati dall’esercito israeliano sono almeno 21.359, di cui 5.201 feriti da munizioni, 5.625 da pallottole di gomma-plastica, 5.367 da lacrimogeni, 5.166 da frammenti di bombe e proiettili. Circa un terzo dei feriti riporta invalidazioni permanenti. Ciò sta dando luogo, nella società palestinese, ad un aumento consistente del numero di disabili, soprattutto fra i bambini; ad esempio nel 2001, i minorenni feriti sono stati 528, di cui 437 con danni irreversibili. Numerose associazioni per i diritti umani, compresa l’associazione Medici di Boston, hanno documentato che i tiratori scelti miravano agli occhi e alle ginocchia di bambini palestinesi “con il chiaro intento di colpirli”. La professoressa Tanya Reinhart dell’università di Tel Aviv scrive: “una pratica diffusa è quella di sparare un proiettile metallico ricoperto di gomma in un occhio, giochetto che esige la massima precisione da parte di soldati bene addestrati”. (fonti: Progetto Asili del Comune di Torino; Palestine Red Crescent Society; AAVV, La nuova intifada, Marco Tropea ed.)

I palestinesi uccisi dalle forze armate israeliane dal 1987 al 1997 sono 1599, di cui 487 bambini, 129 donne, 42 morti in prigione, 26 uccisi ai posti di blocco. (fonte: Progetto Asili del Comune di Torino). I dati seguenti non comprendono gli uccisi nel campo di Jenin, nell’aprile 2002, che, secondo le stime più
attendibili sono 62, né i morti conseguenti ai blocchi dei check point (di cui si dà conto in altra scheda). I palestinesi uccisi dall’esercito israeliano dal settembre 2000 al 22 febbraio 2003 sono, secondo B’tselem, 1.864 (1.820 nella striscia di Gaza e in Cisgiordania e 44 in Israele), di cui 330 bambini e ragazzi al di sotto dei 18 anni. Quelli uccisi dai coloni israeliani 28, di cui 3 minorenni. L’UPMRC, che fornisce dati basandosi su fonti palestinesi – Centro Informazioni Sviluppo Sanitario e Istituto
di Polizia – indica, dal settembre 2000 al 24 dicembre 2002, 2103 palestinesi uccisi, di cui 476 minorenni.

I campi profughi

Le fosse comuni non sono rare nei Territori occupati. Lo stato di emergenza permanente nel quale vivono i palestinesi – rioccupazione militare da parte dell’esercito di Israele, bombardamenti, aumento dei feriti e dei morti, coprifuoco – costringe spesso le autorità sanitarie ad allestire fosse comuni per seppellire i morti, nell’impossibilità di spostarli o ricoverarli in luoghi idonei fino ai funerali. Tuttavia, il disegno di Angelik sembra richiamare un altro tipo di fossa comune: le abitazioni rappresentate sono inequivocabilmente tende di un campo per profughi e sopra e intorno a quei volti ammucchiati in una pozza di sangue si spara, si distrugge. La mente corre al campo profughi di Jenin.

Il 3 aprile 2002, centinaia di soldati dell’esercito israeliano, con circa 450 carri armati e decine di elicotteri da guerra Apache, iniziano un’operazione militare nel campo profughi di Jenin. Il campo, allestito come tendopoli di emergenza nel 1953, occupa oggi circa 10 chilometri quadrati e ospita circa 13.000 persone, di cui almeno 5000 bambini sotto i 16 anni, secondo i registri dell’Unrwa. I palestinesi resistono a questa occupazione e inizia un combattimento tra le parti che, nonostante l’evidente sproporzione di forze, andrà avanti per circa una settimana. In questo periodo, e per 11 giorni consecutivi, a nessuno è permesso entrare o avvicinarsi a Jenin: non ai giornalisti, né israeliani né stranieri, non alle ambulanze e al personale di soccorso, non ai convogli umanitari che cercavano di rifornire di cibo, acqua e medicamenti la popolazione assediata e bombardata. I soldati hanno sistematicamente impedito il soccorso medico ai civili feriti e hanno, a più riprese, sparato contro ambulanze della Croce Rossa e in un caso ucciso un’infermiera in uniforme, Farwa Jammal, di 27 anni. Il 7 aprile, Jamal Fayid, 37 anni, paralizzato, è stato schiacciato in casa sua dai bulldozer, dopo che i soldati avevano negato ai suoi familiari il tempo necessario per consentirgli di uscire, prima di distruggere la casa. Il 10 aprile Kamal Zghair, un handicappato su sedia a rotelle, è uscito sulla strada principale di Jenin con una bandiera bianca ed è stato prima ucciso dai soldati israeliani e poi schiacciato dai tank dell’esercito. I corpi dei feriti e dei morti vengono lasciati per giorni sulle strade e anche quando l’esercito israeliano impone una tregua per recuperare i corpi dei 22 soldati israeliani uccisi, non permette ai palestinesi di uscire dalle loro case. Saranno necessari mesi per accertare il numero dei morti che, secondo stime attendibili, sembrano essere 62. Tutti i testimoni concordano sull’odore dei corpi in decomposizione in ogni angolo del campo, quando, il 17 aprile, hanno potuto entrare, sotto la sorveglianza armata dell’esercito. Allora il campo di Jenin si è presentato ai loro occhi come un unico ammasso di detriti, macerie, polvere, resti di oggetti casalinghi, spianato nei giorni precedenti dai bulldozer. (fonti: 1) Human Rights Watch, Rapporto di 48 pagine intitolato “Israele, occupazione West Bank e Striscia di Gaza e territori dell’Autorità Palestinese: Jenin, le operazioni militari dell’IDF Israeli Defense Force”; 2) Il Manifesto, articoli dei corrispondenti nell’aprile 2002 e nel febbraio 2003; 3) testimonianza di Jennifer Lowenstein di AntiWar; 4) testimonianze di Uri Avnery di Gush Shalom; 5) testimonianze di volontari dell’Associazione comunità Papa Giovanni XXIII)

Gli alberi recisi o distrutti

L’olivo è l’albero da frutto centrale per l’economia dei palestinesi. La coltivazione e la raccolta delle olive,
fonte principale di reddito per molti palestinesi, sono minacciate e impedite, da coloni o dall’esercito. La requisizione di terre (4017 ettari confiscati solo nel 1999) per nuovi insediamenti ebraici e per la costruzione di strade di collegamento comporta inoltre lo sradicamento e la distruzione degli oliveti. Dal 1987 al 1997 sono 185.554 gli ulivi su terra palestinese sradicati dagli israeliani. (fonte: Progetto Asili del Comune di Torino). Dall’ottobre 2000, centinaia di migliaia di alberi su territorio dei Palestinesi sono stati sradicati con i bulldozer, bruciati dai soldati e/o dai coloni israeliani. Di questi, almeno 200.000 erano olivi. (fonti: ISM; GIPP)

Il blocco delle ambulanze

L’esercito israeliano, con l’inizio dell’Intifada al-Aqsa, ha intensificato le restrizioni di movimento dei pale-
stinesi nei territori occupati. La chiusura di strade, i posti di blocco militarizzati, (strade chiuse da ostacoli fisici, a volte da cumuli di immondizia, e dai soldati dei check-point) hanno impedito in molti casi il passaggio anche alle ambulanze, ai mezzi di soccorso medico, alle donne in travaglio e agli ammalati gravi. Tra l’ottobre 2000 e il dicembre 2002, almeno 37 persone che avevano bisogno urgente di soccorso medico sono morte a causa dei ritardi conseguenti a questi blocchi. Tra essi, nel distretto di Nablus: un bambino di 10 anni, Ala Hamdan Abd al-Aziz Ahmad, muore il 14 ottobre 2000 di appendicite perché i soldati hanno impedito al padre di portarlo in ospedale; una bambina di 11 anni, Israa Barkat Sallem Ahmad, portatrice di handicap, il 23 marzo 2001, viene trattenuta un’ora ad un check-
point mentre è svenuta e muore sulla strada; il 7 aprile 2002, una bambina di 2 anni, Tabark Jabar Faiz Odeh, si ammala durante il coprifuoco e per nove giorni i soldati impediscono ai familiari di portarla in ospedale. Quando, il 17 aprile, può raggiungere l’ospedale, vi muore, nonostante la terapia intensiva.

Nei territori occupati, tra l’ottobre 2000 e il dicembre 2002, sono almeno 9 i neonati nati morti o deceduti nei giorni immediatamente successivi al parto perché i militari israeliani impediscono il passaggio ai check-point o ai neonati o alle madri che devono partorire. Tre storie emblematiche. Il 9 marzo 2002, nel distretto di Tulkarem, una ragazza di 17 anni, Rana a-Jayushi, entra in travaglio al mattino e si mette in viaggio per raggiungere l’ospedale, ma le strade sono bloccate e partorisce in una casa lungo il percorso. Il bambino muore alla nascita. Le condizioni della giovanissima mamma si aggravano e suo marito prova a portarla all’ospedale di Qalqiliya. I soldati al check-point li bloccano per circa mezz’ora, e soltanto allora possono chiamare l’ambulanza. Quando questa arriva, la ragazza è già morta. Il 24 ottobre 2001, nel distretto di Betlemme, Fatma Abed Rabo mentre sta partorendo viene trattenuta dai soldati israeliani ad un check-point. Il neonato aveva bisogno di cure urgenti e muore poche ore dopo. (fonte: B’tselem)

I riferimenti ai martiri

Il martire, nella concezione palestinese, è una figura molto più ampia di come normalmente viene interpretata da noi. Martire è chi muore nella resistenza all’occupazione in atto nella sua terra: sia una bambina di quattro mesi uccisa da un missile o un anziano colpito per strada, un ragazzo ucciso in una manifestazione o un militante politico colpito dalla pratica delle esecuzioni extragiudiziarie attuata da Israele, una donna rimasta uccisa nella difesa della sua casa o un ragazzo che si è fatto esplodere per colpire Israele. Non disponendo di uno stato e quindi neanche di un esercito, la distinzione tra civili e militari in Palestina è più complessa che altrove. È, piuttosto, una linea sottile fra civili e combattenti, nella resistenza ad abbandonare la propria terra, che può essere sostenuta o meno da appartenenze politiche o religiose, questo o quel movimento, questa o quella formazione, ma che è anzitutto resistenza all’occupazione. Anche la pratica delle Hamalia intiharia, le azioni di suicidi, quella che viene impropriamente chiamata dei Kamikaze, è ricondotta alla figura del martire, ma non in via esclusiva. Mentre la prima Intifada (1987-1993) richiama alla mente i “bambini delle pietre”, la seconda, iniziata nell’ottobre del 2000 e detta Intifada Al-Aqsa, viene associata ai ragazzi che si trasformano in bombe umane per colpire Israele. Questa pratica è stata utilizzata dalla primavera del 2001 ad oggi con una cadenza irregolare di un attacco suicida al mese per il 2001, con un’intensificazione degli
attacchi tra marzo e giugno del 2002. I palestinesi che hanno portato avanti queste azioni suicide, che hanno dato la morte a circa 280 israeliani, tra civili e militari, sono almeno 45.

Eventi storici specifici

L’intifada Al-Aqsa

Nel 2000, con l’incontro di Camp David, l’ulteriore rifiuto di Israele ad applicare le risoluzioni dell’Onu relative al ritiro dai Territori e al ritorno dei profughi metterà visibilmente in stallo il “processo di pace”. Il 29 settembre dello stesso anno, nella spianata della moschea Al-Aqsa, l’esercito israeliano schierato in forze apre il fuoco contro migliaia di fedeli che escono dalla preghiera del venerdì, uccidendo cinque palestinesi e ferendone oltre duecento. Ha così inizio la seconda sollevazione palestinese, l’Intifada al-Aqsa: dimostrazioni di massa spontanee che finiscono in scontri fra esercito israeliano e giovani palestinesi armati solo di pietre, scioperi commerciali e generali. A differenza che nella prima Intifada, la lotta armata si aggancia strettamente alla rivolta popolare e si consolida la pratica degli attentati suicidi, (Hamalia intiharia: azioni di suicidi, pratica presente sin dagli anni ottanta nel movimento di liberazione palestinese sostenuto da forze libanesi) appoggiati da gruppi di resistenza contrari alle mediazioni politiche e originati dallo stato di crescente rabbia e disperazione nella popolazione palestinese.
Dal 2001 fino ai giorni nostri, Israele rioccupa militarmente i territori di Gaza e Cisgiordania imponendo il coprifuoco nelle maggiori città palestinesi (814 giorni, per 19.538 ore di coprifuoco soltanto nel corso del 2002, suddivise su Ramallah, Nablus, Jenin, Hebron, Qalqilia, Betlemme, Tulkarem). Centinaia di soldati e carri armati, decine di elicotteri dell’esercito israeliano attaccano le città e i campi profughi abitati dai palestinesi, distruggendo abitazioni, infrastrutture civili, arrestando e deportando centinaia di persone. Le cifre dei morti e dei feriti per questo periodo sono indicative: circa 2000 palestinesi uccisi e 21359 feriti da israeliani; circa 676 israeliani uccisi e 4823 feriti da palestinesi. Le risoluzioni firmate dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu contro le violazioni commesse da Israele, dal 1951 al 2002 sono 73, l’ultima delle quali del settembre 2002. Tra il 1972 e il 1990, altre 30 risoluzioni sono state bloccate dal veto degli Stati Uniti.

Nel giugno 2002 Israele inizia la costruzione di un muro – fatto di reticolati ad alta tensione, rotoli di filo
spinato, barriere anti-carro, profonde trincee, lastroni di cemento armato, sensori a onde magnetiche, telecamere mobili e torrette di controllo – lungo centinaia di chilometri. La requisizione e distruzione di terre e case necessaria a questa costruzione segue imprecisamente la linea verde, radendo al suolo una fascia larga da 500 metri a 5 km. Il muro dovrebbe servire a separare gli ebrei che vivono in Israele dai palestinesi. Ma, anche, come si vede ai giorni nostri, a sigillare vivi tre milioni di palestinesi, fra cumuli di macerie, senz’acqua, senza cibo, senza medicine. Senza.
(fonti per i dati: B’tselem; P.R.C.S.; AA.VV., La nuova intifada, Marco Tropea editore; Progetto Asili del Comune di Torino)

L’uccisione di Iman Hajo, una neonata palestinese

Il 7 maggio 2001, Iman Muhammad Hajo, di quattro mesi, viene uccisa fra le braccia della madre, Susan, da un missile israeliano lanciato contro la sua abitazione, nel campo profughi di Khan Yunis, nella Striscia di Gaza. Fra i palestinesi uccisi dall’esercito israeliano nei Territori occupati, dall’ottobre 2000 al febbraio 2003, almeno 330 erano minorenni. Fra essi, 242 di età compresa fra i 13 e i 17 anni, 43 fra i 10 e i 12 anni; 26 tra i 6 e i 9 anni, 19 dagli 0 ai 5 anni. (fonte: B’tselem, Centro Israeliano di Informazione per i Diritti Umani nei Territori occupati)

L’uccisione di un ragazzo palestinese, Saqer Muslah

Il 13 marzo 2002, in Cisgiordania, nel campo profughi al-Maghazi dove viveva, è stato ucciso dai soldati
israeliani Saqer Muslah, di 16 anni. È, fino a quella data, la 191esima vittima palestinese al di sotto dei 18 anni. Numerose organizzazioni per la difesa dei diritti umani e alcuni giornalisti affermano di aver raccolto prove che durante l’Intifada, Israele ha usato volontariamente armi da fuoco contro bambini. La pratica di disumanizzazione dell’avversario si è espressa anche nella scelta dei termini usati nei riguardi di questi bambini, definiti “nemici”, “bestie”, “aggressori molesti”, e “terroristi”. Il quotidiano israeliano Ha’aretz cita la seguente dichiarazione di un alto ufficiale dell’esercito israeliano: “Nessuno potrà mai convincermi che non abbiamo ucciso decine e decine di bambini senza una ragione”. (fonti: B’tselem; AAVV, La nuova intifada, M. Tropea ed.)

Il bombardamento della Chiesa della Natività di Betlemme

Betlemme è una piccola città della Cisgiordania, a pochi chilometri da Gerusalemme, da cui è separata da un muro. Ospita la Basilica della Natività, luogo sacro per la Cristianità, in quanto sorge sulla grotta nella quale nacque Gesù. Betlemme è stabilmente circondata da sedici posti di blocco israeliani, attraverso i quali viene attuato il confinamento dei 61.000 palestinesi che vi abitano, geograficamente circondati da insediamenti ebraici. Il primo aprile 2002 l’esercito israeliano occupa Betlemme e impone il coprifuoco, che durerà 40 giorni. Il 2 aprile 2002 circa duecento palestinesi, insieme ad alcuni giornalisti europei, si rifugiano all’interno della Basilica per sfuggire ai militari israeliani, che stanno distruggendo negozi, compiendo rastrellamenti nelle case e arrestando e ferendo numerose persone. L’esercito comincia allora l’assedio alla chiesa della Natività. Ai giornalisti sarà permesso uscire, 48 ore dopo. L’assedio durerà invece altri 38 giorni, nel corso dei quali la statua della madonna della chiesa della Natività viene effettivamente crivellata di colpi. Per le informazioni che offre sugli eventi di quei giorni, riportiamo alcuni brani della testimonianza di Frate Ra’ed Abu-Sahlia (padre Labib Kobti): «(…) I guardiani della Basilica della Natività: i padri francescani della Chiesa Cattolica, Greco-Ortodossa ed Ortodossa Armena, hanno ripulito la chiesa e specie la basilica vecchia secondo la purificazione liturgica
(…) per il semplice fatto che essa era molto sporca dal momento che, per 40 giorni, vi avevano vissuto 240 persone in difficilissime condizioni, senza cibo, acqua, elettricità e comodità. La chiesa era in pessime condizioni ma gli ospiti non hanno causato nessun danno ai luoghi storici e alle proprietà della Chiesa. La Chiesa ha dovuto essere purificata anche perché era stata dissacrata dalla morte, all’interno dell’edificio, di 8 persone colpite dai cecchini israeliani, i corpi di due delle quali sono rimasti per oltre 12 giorni nei sotterranei adiacenti la Grotta della Natività. (…) La Chiesa è stata danneggiata dalle bombe incendiarie lanciate all’interno dai soldati israeliani e dai numerosi colpi sparati dai cecchini, che hanno ucciso un anziano campanaro ed otto palestinesi, l’ultimo dei quali centrato mentre aiutava i frati a domare l’incendio che stava devastando l’ala più antica del convento. Ma Betlemme appare distrutta: le famiglie sono allo stremo, mentre, dopo 40 giorni di assedio e coprifuoco, le strade sono distrutte e piene di rifiuti». (fonte: www.aracomint.com/francescani.htm)

L’uccisione del giornalista Raffaele Ciriello

Almeno nove fotografi e giornalisti di testate estere sono stati feriti dai colpi israeliani nel corso del 2001-
2002 nei Territori occupati. Il 13 marzo 2002, a Ramallah, Raffaele Ciriello, fotografo freelance italiano, viene ucciso da una raffica di mitra sparata dai soldati dell’esercito israeliano. Ciriello era con un giornalista del Tg1 della Rai nei pressi della piazza Al-Manara, dove le truppe e i carri armati israeliani stavano avanzando per occupare Ramallah. Il tank ha sparato in un momento e in una zona in cui non erano in corso combattimenti. Gravemente ferito da sei pallottole all’addome, Ciriello è stato soccorso da giovani palestinesi che lo hanno portato in ospedale, dove è deceduto dopo il ricovero. (fonti: B’tselem; La repubblica, 14 marzo 2002)

Insediamenti israeliani

L’insediamento ebraico di Gilo, costruito nel 1970 su terreni palestinesi confiscati dopo la guerra del 1967, sorge su una collina nei pressi di Betlemme. Popolato da circa 30 mila coloni è in progressiva espansione territoriale. Come gran parte degli insediamenti sorge su terra confiscata “a scopo di sicurezza” o dichiarata terreno demaniale da Israele. Tra il 1993 e il 2000 il numero di coloni negli insediamenti è salito da 110.000 unità a 195.000. Gli insediamenti, vietati dalle leggi internazionali, sono promossi da Israele con agevolazioni economiche e protetti dall’esercito. Sono collegati fra loro da strade per soli coloni e soldati, vietate ai palestinesi. Gli insediamenti ebraici, che sono almeno 150, hanno comportato la confisca e la distruzione di migliaia di ettari di terra coltivata dai palestinesi e comportano, per la loro distribuzione sul territorio, la separazione geografica della popolazione palestinese, contribuendo significativamente alla distruzione dell’integrità territoriale della Striscia di Gaza e della Cisgiordania. All’interno degli insediamenti, dove zampillano le fontane e non manca mai la luce, sono immagazzinate ingenti scorte di armi, sotto la responsabilità degli ufficiali che vi abitano. (fonti: Progetto Asili del Comune di Torino; AA.WW, La nuova intifada, Marco Tropea editore)

La mostra

Chi fosse interessato a organizzare la mostra “Bambini in Palestina”, che costituisce la documentazione di un periodo storico ancora tristemente attuale, può contattarci. L’allestimento prevede l’esposizione di una ventina di pannelli 70×100 cm e 50×70 cm, organizzati su base tematica e corredati da schede informative.

CHI SIAMO

Siamo una cooperativa di produzione e lavoro dal 1990. Proponiamo un modo di cercare, di porre domande sui vissuti, sui dispositivi totalizzanti,  sulle risposte di adattamento e sulle risorse creative delle persone che li attraversano.

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